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02.12.2019 # 5458
Lamotte Beuvron. Il misterioso caso delle due sorelle e della torta rovesciata

Lamotte Beuvron. Il misterioso caso delle due sorelle e della torta rovesciata

Sul treno che da Orléans corre verso la Loira ho modo di riguardare i miei appunti su un caso interessante che risale alla fine del 1800

di Tonino Risuleo

Lamotte Beuvron, un paesotto nella Loira, ci abitano meno di cinquemila persone ma il suo nome è conosciuto in tutto il mondo per via di una crostata malriuscita. La storia è questa.

All’inizio del 1880 le sorelle Stéphanie e Caroline Tatin ereditarono una piccola locanda di campagna che presto divenne un punto d’appoggio ideale per i cacciatori e i passeggiatori che capitavano lungo il Canale della Sauldre e negli ottomila ettari della vicina foresta.

In quegli anni il canale costituiva un’importante via di comunicazione per le merci trasportate a bordo di chiatte lunghe una trentina di metri con una portata fino a 55 tonnellate.

I Berrichon -che dovevano il loro nome alle barche del Canale di Berry- venivano trainati a mano da due uomini o per quelli più fortunati da un mulo. I barcaioli trascorrevano a bordo i cinque o sei giorni di viaggio condividendo un’essenziale cabina di poppa e, fieri dei loro natanti, li battezzavano con nomi altisonanti come “Terrible”, “Neptune” o addirittura “Surcouf” che significa sottomarino. 

Alla fine dell’Ottocento quel territorio era considerato un vero Regno del Cacciatore e la dimora delle sorelle Tatin iniziò ad affollarsi di ospiti talvolta anche illustri.

Si racconta che Stephanie, intenta a preparare il pasto della giornata, avesse deciso di fare una gustosa torta di mele preparata con le due varietà regionali, Calville e Reine des Reinettes tagliate a fettine. Quel giorno, distratta, lasciò le mele a rosolarle troppo a lungo nel burro e nello zucchero e quelle cominciarono a bruciacchiarsi. Per evitare di carbonizzarle, posizionò uno strato circolare dell’impasto per la torta sopra le mele, quindi mise tutto nel forno augurandosi un fortunato recupero.

La fama della Tarte Tatin fu suggellata dal racconto probabilmente inventato dal leggendario chef del Maxim’s di Parigi, Louis Vaudable:

“Da giovane ero solito cacciare in quel di Lamotte-Beuvron; un giorno ho scoperto, in un minuscolo hotel gestito da un paio di vecchie signore, un dessert meraviglioso, indicato nel menu come Tarte Solgnote. Ho chiesto allo staff la ricetta ma si rifiutarono categoricamente di darmela. Non mi diedi per vinto, tornai e riuscii a farmi assumere come giardiniere in quello stesso hotel. Sono stato licenziato tre giorni dopo, era evidente che non fossi in grado nemmeno di piantare un cavolo, ma quel breve periodo fu sufficiente per infiltrarmi nella cucina e carpirne i segreti. Ho portato la ricetta a Parigi e l’ho messa nel mio menu come Tarte des Demoiselles Tatin.”

Per la verità le sorelle Tatin morirono una nel 1911 e l’altra nel 1917 e la famiglia Vaudable acquistò il Maxim’s soltanto nel 1932. Quel furbacchione di Vaudable.

Voilà. Mi basta scendere dal treno alla stazione di Lamotte-Beuvron e in tre minuti sono già sulla scena del crimine. Una sala linda mi accoglie oltre la tettoia coperta da piccole tegole rosse ma procedo oltre per guadagnare un bel tavolo al fresco nel giardino sul retro. Il cameriere è di quelli che la sanno lunga, è l’ennesimo custode della dolce menzogna ma fa finta di niente sciorinandomi le specialità della casa standosene col naso all’in su.

Opero le mie scelte. Inizierò con della testina di vitello in salsa Ravigote e un medaglione di Storione al rosmarino con crema di Curcuma… assieme ci bevo un calice di Muscadet sur lie.

Come piatto forte ne prendo due un bel filetto di Luccio arrosto “à la Moutarde d’Orléans” e un duo di rognone e animelle di vitello “flambés au Cognac”. Il sommellier cerca di confondermi le idee facendomi assaggiare in rapida successione Pouilly-Fumé, Sancerre, Touraine St.-Nicolas-de-Bourgueil, Muscadet de Sèvre-et-Maine e un tardivo Chenin Blanc.

Non mi distraggo e pretendo una porzione del corpo del reato: eccola la mitica Tarte Tatin, se ne sta lì bel bella, fumante e sottosopra infischiandosene dei secoli che passano.

Beh, caso risolto!

P.S. La Salsa Ravigote: tritate abbastanza finemente i capperi, lo scalogno, il cetriolino e le erbe odorose (basilico, maggiorana, menta). Raccogliete il trito in una ciotola, unite la senape e amalgamate. Emulsionate due cucchiai d’aceto con quattro cucchiai d’olio. Versate l’emulsione nella ciotola continuando a mescolare con cura. Regolate sale e pepe. 

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16.06.2020 # 5542
Lamotte Beuvron. Il misterioso caso delle due sorelle e della torta rovesciata

Pedro, l’amico, forse falso, che fece di tutto per essere carino

Errante per la dirupata costa galiziana in cerca dei percebes da aprire per strappare l´artiglio con le mani e mangiarne la polpa

di Tonino Risuleo

Pedro, per gli amici Pedrito. Un uomo di statura minuscola dal colorito quasi nocciola come i calzoni di fustagno che indossa arrotolandoli alle caviglie. Adotta le movenze guardinghe di chi si aspetta un imprevisto attacco da dietro: sfila al ridosso dei muri lanciando naso e occhi a destra e sinistra. Mi è stato proposto come guida dall’amico di un amico che si è trasferito in Galizia per via della sua profonda e malsana passione per i mariscos: le rocce lambite dall’Atlantico forniscono un habitat più che ideale per le ambite e succulente creaturine. L’amico di un amico per amico! Un’equazione complessa dagli esiti incerti ma l’ometto nocciolato si presenta nella migliore delle maniere e se voleva impressionarmi ci riesce. Mi ha dato appuntamento all’ombra del faro di Cabo Ortegal che si staglia su uno dei tratti più frastagliati e ventosi dell’intero vecchio continente.

A poche miglia dal cabo si affrontarono, il 4 Novembre del 1805, le veloci fregate del capitano Strachan della Royal Navy e i potenti vascelli del retroammiraglio Dumanoir le Pelley dell’armada francese. Gli esiti già infausti della battaglia di Trafalgar trovarono in quelle acque una dolorosa conferma, Dumanoir fu attirato in una estenuante rincorsa che finì per rivelarsi un fatale tranello. Le navi residue della flotta di Napoleone finirono a picco o catturate dall’avversario e Dumanoir fu lì lì per rimetterci la feluca con tutta la capoccia. Il vento teso di nord-est solleva la tesa del mio fedora e gonfia i calzoni del mio acompañante trasformandolo in un buffo clown Augusto.
Sulla sua testa rotonda gli danzano dei ciuffi che sembrano le ali di piccoli uccelli marini e i suoi occhietti ficcanti hanno un che d’inquietante. Mi propone un giro dei cabos e delle playas, una puntata panoramica sul Monte Faroleiro e un buon comido in un posto cariño.

Nulla da obiettare! Un tour minimo è quello che ci vuole, d’altra parte la giannetta che soffia invita a prendere decisioni rapide, saltare i convenevoli e passare al più presto alla fase delle libagioni. Sono d’accordo, mi sembra un programma carino.
Noto che descrivendomi il questo e il quello una spesso la parola cariño… la appiccica ovunque in una maniera che alla fine risulta leziosa. E nei suoi occhietti mi pare di cogliere la fuggevolezza tipica del falso amico.
A un certo punto, in vista dell’amena cappella di San Xiao de Trebo, forse in preda a un’improvvisa crisi mistica ecco che l’omino inizia a erudirmi sul Santo che in galiziano fa Xiao oppure Xulián, e Julián in spagnolo, Giuliano insomma; un santo tanto stimato in Galizia da poter contare sulla bellezza di 122 parrocchie. Che sia ritratto in abito talare con croce e palma del martirio, con la corazza da soldato romano, con il saio e il cappuccio o in costume egizio il suo carisma presso i fedeli galiziani è indiscusso.
Devo riconoscere che il suo dilagante torbellino de palabrasas mi confonde e mi conquista: amico falso o vero che sia, Pedrito si sta dimostrando soggetto curioso e interessante. Come un manicaretto scoperto per caso.

Ridiscesa la costa fino al lindo paesotto che si chiama, guarda caso, proprio Cariño il mio ormai-amico decide che la cosa migliore sia scendere verso spiaggia per raggiungere uno dei più panoramici e garbati  chiringuitos della costa. Sotto una tettoia impagliata ci sistemiamo a un tavolino e godiamo di un litorale spezzettato in cale, gole e punte.
Un solerte anfitrión ci porta immediatamente due cañas di Albariño blanco e Pedro insiste perché mi avventuri nell’approccio con gli orribili e coriacei Percebes (Pollicipes pollicipes  o piedi di cornucopia).
Sono dei piccoli crostacei che vivono aggrappati alle scogliere battute dalle fredde onde oceaniche. A pescarli sono gli eroici perceberos che li raccolgono a mani nude assicurandosi a una cima per non farsi trascinare via dagli schiaffi dei marosi. Il sapore è quello di una vongola con la consistenza di un gamberetto, vanno cucinati in acqua bollente per qualche minuto e divorati senza aggiungere niente perché il sapore di mare ci mette il suo.

In attesa di conoscere il resto mi concentro sulla lista dei vini… sconosciuti! In questa regione l’acqua salata dell’oceano si mescola con le acque dolci dei piccoli fiordi dando origine a vitigni a bacca rossa per vini con un profilo mediterraneo, minerale e salino: il Caiño, l’Espadeiro e il Mencía.
Una gentile cocinera ci colma di attenzioni dedicandoci la sua deliziosa coda di rospo in umido e  inebrianti uova strapazzate con ricci e alghe, il festivo Pulpo á Feira e le cozze al vapore, un piatto generoso di Churrasco di ternera con patate e il Pimiento del padrón come contorno.
Con l’orizzonte che si scioglie nel rosa arriva il momento dell’Arroz con leche e della Tarta de queso che ci proietta nel rito conclusivo del conxurro, l’incantesimo protettivo e alcolico a base di Orujo.
È l’incantesimo a portarsi via la sera e insieme anche l’ometto con i calzoni da pagliaccio e i capelli volatili.



El Chiringuito de San Xiao, Lugar de San Xiao 5, Cariño, Spagna

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10.02.2020 # 5456
Lamotte Beuvron. Il misterioso caso delle due sorelle e della torta rovesciata

A Venezia per le calli, in barba ai calli

Il percalle è un tessuto dal nome antico: un filato in cotone di eccezionale finezza e compattezza. Ideale per confezionare camicette e sottovesti

di Tonino Risuleo

Ci chiamano piedipiatti? Bene, allora trascorrerò questa mia giornata veneziana senza salire neanche una volta a bordo di un vaporetto, di una gondola o di un tragheto; andrò a piedi, per capire una volta per tutte, le definizioni dei vari elementi topografici nell’intrico dei sei Sestieri della città lagunare. 

Qual è la differenza tra un Campo e un Campiello? Facile, l’estensione dello slargo! Ma tra una Corte e una Ruga? Il reticolo di rii e canali rende magica l’atmosfera acquarellata della mattinata nebbiosa che nasconde la parte alta dei palazzi e delle chiese… E cos’è una Salizada Pronti! Uso gli appunti del mio amato libriccino per svelare tutti i misteri delle antiche denominazioni. Alcuni anni fa indagando su un oscuro pasticciaccio ho avuto la guida d’eccezione di un collega nato e cresciuto a pelo d’acqua alta e tutto mi è stato svelato. In Salizada, a sentirla ripetere nel ciacolìo locale, s’intuisce la possibile traduzione in selciata, cioè pavimentata. Quando le calli di Venezia erano tracciate in terra battuta, quelle selciate erano le salizade. Lista e Liston erano i tratti delle vie nei pressi delle ambasciate straniere, lastricate di pietre e pietroni.

Ma se il rio è una via d’acqua perché un Rio Tera’ riesco a percorrerlo a piedi? L’intuito può aiutare a capire che un rio tera’ è un rio in-terrato e… pedonalizzato. Per lo stesso motivo in una Piscina non si riesce a nuotare.

I camminamenti lungo i canali sono Fondamenta, e si vede dai grandi pali di quercia profondamente infissi nel fango a far da base d’appoggio per ponti e palazzi. Se una fondamenta è particolarmente larga diventa una Riva, come succede agli Schiavoni. 

Procedo lesto per una Calle Lunga e rallento nella Calle Larga per sbirciare nel giardino oltre un cancello; non ci sono molti alberi da queste parti ma in corrispondenza con una Crosera m’incammino per un Ramo e mi ritrovo in una Corte. La più famosa della città è quella de’ Bottai che Hugo Pratt ha ribattezzato Corte Sconta -nascosta- detta Arcana. 

Curioso che questa superba capitale non ci tenga a nascondere la sua età e mostra a tutti i viandanti rughe, rughette e calli. 

Un Borgoloco è la calle speciale dove si va a cercare albergo: storicamente si chiamavano così perché vi si trovavano alloggi e locande. Ne rimangono solo due, una dedicata a San Lorenzo e l’altra allo storico Pompeo Molmenti. La via con tante botteghe e negozi in fila in fila, dove si fa commercio, è la Marzaria

Di Piazza a Venezia ce n’è una sola dedicata a San Marco e un solo Piazzale, più laico, che è l’ultimo punto raggiungibile dai mezzi su ruote gommate, che vengano da Roma o no. 

Di tanto in tanto mi tocca scavalcare un rio e ogni volta c’è da salire e poi scendere per gli scalini di ponti e ponticelli: che siano di pochi metri o maestosi scavalchi, tutti, hanno un nome. Leggo a casaccio dagli appunti tanto ognuno ha il suo fascino e la sua poesia: il Ponte Cavallo che a salirlo svela il monumento equestre di Bartolomeo Colleoni del Maestro Verrocchio, il Ponte dei Guardiani, il Ponte de le Ostreghe, il Ponte de le Pazienze, il Ponte dei Lustraferi, il ponte bambino dei Zogatoli, il Ponte de la Cortesia e quello dei Pignoli, il Ponte Tetta del nobile Giacinto e il Ponte de le Tette quello delle carampane, il Ponte de l’Anzolo e il Ponte del Diavolo, il Ponte della Fava senza quello della Rava. Di Ponte Storto ce ne son tanti.

Le friulane che calzo alla lunga non si dimostrano all’altezza della scarpinata e anche lo stomaco mi dichiara guerra; sono in Calle del Ghetto Vecchio e al 1143 mi blocco davanti alla vetrina del forno degli azzimi. Ci ripasserò domani. Per stasera meglio fare qualche passetto in più e arrivare al ristorante kosher al 1123, all’angolo delle Fondamenta de Canaregio.

Trovo immediatamente il tavolo giusto, schiena alla parete e rivolto all’ingresso. Attorno a me vedo diverse facce sorridenti col barbozzo unto: si deve mangiar bene se non c’è il tempo di ricorrere al tovagliolo! Mi affido alle gentilezze di una giovane che sceglie per me ed ecco nove barchette in ceramica bianca che mi arrivano colme di bontà colorate e aromatiche. Nella capitale d’occidente che è sempre stata la porta dell’oriente, le spezie imperano e sciolgono i misteri: Massa ‘Bacha di melazana, Sarde in saòr, Hummus della casa, Cous cous coi pesci della laguna, Latkes di patate, Parghit di pollo, Matbucha. 

I piatti si affollano come isolotti e il vino bianco della casa, leggero e profumato, sospende la lettura della carta della cantina.

Poi nell’angolo più lontano, vicino alla cucina, scorgo un ceffo che ingoia tagliatelle alla bolognese… dev’essere il solito americano in cerca di emozioni!

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13.01.2020 # 5455
Lamotte Beuvron. Il misterioso caso delle due sorelle e della torta rovesciata

Il commissario, il cane Barone, la cornacchia Orune e la tartaruga Pasqua

Tra «aride argille che toccano il cielo» in mezzo ai calanchi dell’Appennino Lucano c’è il paese che non è Eboli dove Carlo Levi si fermò suo malgrado.

di Tonino Risuleo

Tra «aride argille che toccano il cielo» in mezzo ai calanchi dell’Appennino Lucano c’è il paese che non è Eboli dove Carlo Levi si fermò suo malgrado. 

Alla ricerca di un bel posto sperduto, mi aggiro per montagne e spianate argillose dalle parti della Val d’Agri. Lascio che l’auto scivoli, in folle, in discesa… per godere del silenzio assoluto. 

Ora la strada tutta pieghe si raddrizza e affronta un ponticello con graziose spallette di ferro battuto. Sotto scorre, tonto, il torrente Sauro che di acqua ne porta assai poca.

Vado ad Aliano, un paesetto abitato da qualche centinaio di contadini anziani con le facce brune e lo sguardo profondo. Ad Aliano, dove tra il 1935 e il 1936 il medico, scrittore e pittore Carlo Levi rimase confinato da Mussolini per la sua attività antifascista. 

La casa di Levi è ancora qui, col suo balcone aperto sull’Infinito: voglio uscire da quella porta-finestra e affacciarmi « …sul tetto del mondo, dalla tolda di una nave ancorata su un mare pietrificato… ».

Dovevano essere fin troppo tranquille le giornate del medico artista che aveva conosciuto la ribellione dei Fauves parigini negli anni Venti.

Il brulicare irrequieto dei contadini bruniti dal sole e la solitudine stimolavano la fantasia del pittore e dello scrittore fino a metterlo in relazione con ogni sorta di essere vivente… il bestiario di Carlo Levi: le formiche operose come i lavoratori dei campi stitici e il cane Barone, dallo sguardo enigmatico, la gracchiante cornacchia Orune e la bizzarra tartaruga Pasqua, le mosche insistenti e i topi baffuti. 

Questa è la stessa terra aspra di Rocco Scotellaro, truffatore per i suoi avversari politici e poeta della povertà antica per tutti. Scotellaro scriveva dei topi:

I topi sentono gli occhi

quando mi sollevo a vederli.

Si muovono con gambe lunghe

di uomo nella stanza.

Resistono perché sanno

che anche io alla fine mi addormento

e per loro sarà libero gioco.

Questa immersione nella storia mi provoca qualche vertigine e il lastricato asciutto mi mette sete. E poi, è mezzogiorno, qui a Mezzogiorno, l’ora e il posto giusto per mangiare come cristo comanda!

Interrogo un cordiale vecchietto con bastone e paglietta e ottengo la soffiata. C’è da scarpinare per un po’ su e su verso il centro del paese: il posto è lindo e accogliente e la cortese Taverniera capisce al volo che mi piace quel piccolo tavolo d’angolo.

Sotto le travi sono appesi i tegami di rame e le riproduzioni di disegni e quadri dell’illustre ospite del 1935 e, sotto vetro, c’è anche una copia della sua foto segnaletica con tanto d’impronte digitali… Arriva una brocca di vino nero e potente: mi concentro su quello che mi viene messo davanti. L’antipasto è un profumato corollario di delizie a cominciare dalle fragranti zeppole fritte spolverate di sale fino che si litigano la scena con il prosciutto al coltello, capocollo e salame, nodini di mozzarella e pomodori secchi. Ecco gli immancabili peperoni cruschi e la rafanata che è una frittata di patate lesse, mollica di pane, pecorino e rafano grattugiato. Sempre come spezzafame mi portano un paio di peperoni imbottiti  e qualche involtino di melanzane accompagnati da un pane al finocchietto caldo caldo.

Questa Sisina sarà pure una Contadina ma è implacabile. M’impone i suoi tortelloni ricotta e spinaci con scaglie di noci, le laganelle con zucca e salsiccia, i fusilli con mollica di pane e peperoni cruschi. In un’epifania di carni suine, ovine e caprine l’affabile padrona di casa insiste perché assaggi la vera zuppa di baccalà alla contadina. I contorni sono altrettanto impegnativi ma non rinuncio a un coccio di zucca e cavolfiore con formaggio gratinato nel forno a legna.

Mangio una cofana d’insalata condita con l’aceto prima di affrontare l’ultimo scoglio: cannùli riempiti davanti a miei occhi con ricotta e cannella.

Ho bevuto un’intera napoletana da dodici tazze, ho perso i sensi e mi sono ritrovato con altri sfollati in una cantina a discutere de “Le ragioni dei topi”.

Taverna La Contadina Sisina, Via Roma 13 (o forse Vico Stella 5) Aliano (MT)

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16.12.2019 # 5457
Lamotte Beuvron. Il misterioso caso delle due sorelle e della torta rovesciata

Greccio. Il caso freddo della Notte Silente

Le tende accostate lasciano entrare una lama che illumina un angolo della stanza; sul comò, nella grossa ceneriera, la mia pipa s’è raffreddata

di Tonino Risuleo

Solo il sospiro del cigolio della rete del letto e fuori un silenzio profondo che ha ingoiato tutto, anche il brontolare delle auto al semaforo. La notte ha portato la neve.

È la neve nella mattina di Natale, il sogno di ogni bambino: una festa. 

E anche per un bambino cresciuto vale lo stesso. Un po’ più in fretta del solito mi preparo per uscire, indosso il solito ingombrante cappotto e m’infilo in tasca la pipa fredda caricata a trinciato.

La neve scricchiola sotto le suole… così si dice -scricchiola- ma davvero non basta a definire questa sensazione fatta di resistenza al calpestio che si fa morbido e ostinato. Piacevole perché unico. Il piede avanza e slitta un po’ all’indietro, ritarda il passo e lascia il tempo di lanciare lo sguardo intorno per vedere quanto di strano ha combinato la precipitazione silenziosa dei fiocchi notturni. 

Ma che fine hanno fatto i colori? Sul mio palcoscenico lo scenografo ha di certo scelto un fondale in bianco e nero per dare più importanza alle trovate del coreografo. Questa è la cosa che si nota: ciò che si muove conserva i colori naturali, solo più vividi.

E allora tutto quello che ho intorno cambia, diventa una scena dipinta con l’aerografo come in certe pubblicità degli anni ottanta, più gommosa, come le luccicanti macchinine di una giostra. 

Le persone sul marciapiede vanno nella mia stessa direzione tutte con lo stesso incedere incerto, anzi, sembrano addirittura ferme mentre passo oltre raggiungendo la zona del mercato. 

Anche qui la sensazione di immobilità confonde la percezione di quello che vedo: frutta e verdure sui banchi si offrono con colori squillanti mentre i venditori propongono la merce con mezzi sorrisi un tantino stolidi. Molti di loro, abbandonate le bancarelle, hanno scelto di avviarsi nella stessa direzione.

Supero un gruppetto di musicisti: il fisarmonicista sul punto si gonfiare il mantice, le guance già piene del trombettista, il violinista che fa slittare l’archetto. 

Cavo di tasca la pipa e avvicino il fiammifero per arrostire il trinciato. Anche il fumo che espiro alla prima boccata fatica a salire e mi ristagna attorno al cappello come la nuvoletta del pensatore. Un cane col pelo folto mi fissa dall’altro lato della strada, ha perso il suo padrone e ne cerca uno nuovo senza scodinzolare. Passo accanto al forno, sulla soglia c’è il pizzaiolo con un ruoto di pizza. Sembra offrirla ai passanti ma il suo sguardo è rivolto più in là dove il corso s’è riempito di figure curiosamente incolonnate.

Guadagno posizioni e arrivo in piazza. Una nebbiolina giallastra annulla la profondità e confonde le proporzioni di cose e persone: è tutto troppo grande e tutto troppo piccolo. Un gigantesco carretto viene spinto da un omino curvo verso il fondo della scena. Da un androne ad arco arriva una musica incerta e un canto dal timbro curioso, sembra prodotto da una trombetta. 

Mi inoltro nella penombra sotto la volta attorniato da diverse creature che si stringono creandosi uno spazio utile per avvicinarsi al punto da cui arriva la musica: una grossa testuggine accanto a me spinge il deretano di un roseo porcello. La vocetta è quella di un Pulcinella che si accompagna con un mandolino senza corde. Che ci facciamo tutti in questo cortile polveroso?

C’è un’umidità fastidiosa; il caldo appiccicoso delle fiaccole e il respiro della folla appesantisce l’aria provocandomi un certo torpore. Spingo anch’io, cerco un angolo tranquillo, per una volta non mi sento le forze per indagare oltre. Noto una piccola alcova con un basamento in pietra, sembra accogliente, mi accomodo piegando un braccio sotto la testa: sono tanto stanco, mentre le mie palpebre calano sento il soffio di una voce “Nessuno svegli Benino”. 

Rientrando dalla toilette in fondo a destra m’accorgo che il locale s’è riempito e il mio tavolo d’angolo è già apparecchiato con tanto di caraffa di rosso. Un cameriere rubizzo accorre a raccontarmi cosa c’è in cucina.

Dopo l’antipasto di salumi e sott’oli ci sono i primi: Cannelloni alla francescana, Fregnacce ai funghi porcini, Ravioli ricotta e spinaci, Tagliatelle al ragù. Di secondo c’è: Coratella, Faraona, Arrosticini di pecora, Costolette d’agnello a scottadito e Coniglio alla cacciatora. Contorni come da tradizione con: Peperoni, Patate, Zucchine e verdure ripassate. Le lunghe tavolate attorno a me mettono allegria; noto un’anziana signora che passa da un commensale all’altro per assicurarsi che tutti si sentano a proprio agio.

Ma ecco le portate, l’allegro vociare si placa, tutti si danno da fare con forchette e cucchiai… A bocca piena non si parla.

È allora che sento arrivare dalla sala al piano superiore una musica incerta che accompagna il canto di una voce dal timbro curioso: sembra quasi una trombetta.

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11.11.2019 # 5459
Lamotte Beuvron. Il misterioso caso delle due sorelle e della torta rovesciata

Il muflone della porta accanto

Il vento di maestrale e gli effluvi di mirto. E quella indistinta sensazione di piacevole spossatezza che spesso ci vuole.

di Tonino Risuleo

Sono tre giorni che mi tengo il cappello con la mano, le raffiche da nordovest concedono rare tregue e c’è il rischio di vederlo rotolare lontano.  In compenso il sole è già caldo, e allora diventa piacevole concedersi ai fischi scostumati di invisibili sirene. 

Che strana natura! Magica, si direbbe, fatta di sabbia e boschetti fitti con gli alberi che si piegano verso il cuore dell’isola, attirati dall’aspro e dal selvaggio. È una terra di miti e misteri e le creature che la custodiscono esistono solo qui. Per arrivare alla parte alta della collina si scende e si sale attraversando una macchia di lentisco e ginepro. Solo in cima si riesce a vedere l’orizzonte aperto sul blu del Canale di Corsica con le mille crestine del suo disordinato gregge di onde. A ponente il golfo segue il profilo allungato dell’Asinara e a levante si perde, oltre l’infinita spiaggia di Platamona, fino a Castelsardo.  Mi sono fatto montare un piccolo capanno di stuoie da dove posso ammirare, si fa per dire, il ciclico impegno dei pescatori che lanciano al branzino; una volta si chiamava surf casting e adesso chissà come. Di tanto in tanto mi raggiunge una giovanetta con gli occhi da daino sardo che mi serve microscopici bicchieri di odoroso mirto; vuole a tutti i costi farmi assaggiare il suo fantastico spritz  e ogni volta mi tocca ribadire che non apprezzo le grosse quantità in un solo bicchiere a meno che non si tratti di birra. Si allontana lasciando a galleggiare nell’aria il suono particolare della sua risata. Il tipo sulla riva con la tuta camuffage e i gambali di gomma gialli deve averne preso uno grosso; la sua canna in si piega ad arco e il campanellino in cima al cimino trilla a ogni recupero. 

Me ne vado! I pescatori tendono a condividere l’orgoglio della cattura facendosi immortalare con la loro preda. E lo spettacolo del pesce con l’occhio lesso preso all’amo per fame o per stoltaggine, per me ė troppo. Seguo le pietre piatte del sentiero e mi ritrovo presto in una situazione spinosa: sono circondato da una fitta vegetazione verde scuro punteggiata da piccole ghiande e altre palline nere non meglio identificate, sembrano i festoni di un natale precoce o tardivo. Affioro con tutte le spalle al di sopra dell’intrico di rami e radici e sulla testa mi pesa un cielo blu più profondo del mare. 

Mi sono perso? E intorno non vedo nessuno. Ma una voce che arriva da sotto la coltre fogliosa mi restituisce la speranza. M’immergo e nell’ombrosa umidità e scorgo un uomo di piccola taglia con torso e braccia particolarmente sviluppati… Mi fissa con i suoi occhi grigi e tondi mentre con la sua voce scoppiettante, le cui parole non riesco precisamente a decifrare, m’invita o così credo, a seguirlo. Non mi rimane che assecondarlo, mi metto carponi senza porre ostacoli. Incredibilmente in un attimo siamo fuori. Magia! Su una duna nei pressi della stessa spiaggia di prima c’è parcheggiata una specie di dune-buggie bruciacchiata dal sole, sul cofano spicca un cranio cornuto: un teschio di muflone suppongo.  Il motore che tossicchia fa da controcanto alla voce del mio salvatore che borbotta qualcosa a proposito di un posto dove si mangia così bene che lui ci torna ogni giorno. Mi scarica davanti a un gruppo di capanni con il tetto a pagoda. Un altro omino, al contrario dell’altro, magrissimo, mi corre incontro come se mi aspettasse da sempre. Mi fa accomodare ad un tavolo immerso in un tramonto esagerato dipinto a due mani da Turner e Canaletto. 

Ma in cucina ci dev’essere Michelangelo! Solo un architetto, pittore e scultore può riuscire in tali opere di equilibrio e forza: parto con una insalatina di bottarga su mousse di ricotta ma non rinuncio alla zuppetta di conchigliacci. Sarei a posto ma l’ammiccante furetto m’indica il baccalà in agrodolce e non me le sento di deluderlo. Slurp, ho fatto bene! A un piatto di maloreddus non dico di no e neanche agli spaghetti con le arselle. Nella gastropinacoteca del Maestro c’è un trionfo di forme e colori: ammiro con le papille dilatate un magnifico polpo abbarbicato a sontuosi scogli di patate e una fetta di spada incrostata di pistacchi. Concentro lo sguardo su un una testa di porco miniaturizzata con le guance appetitose rosolate dal sole. Devo ammettere di essere un maniaco del formaggio arrosto, e allora? Stremato chiedo un digestivo filoferu… Niente, rieccola, e stavolta capitolo. Lo spritz è una gigantesca piscina dai toni agrumati dove naviga una fetta d’arancia trafitta da due cannucce nere. 

Mentre mi allontano con la pancia gorgogliante sento ancora echeggiare quella buffa risata… Sarà per via del mio cappello che all’ennesima folata sta rotolando lontano?

Sunset Ristorante del Camping Village Golfo dell’Asinara Loc. Platamona, 35 – Sorso (SS)

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05.11.2019 # 5465
Lamotte Beuvron. Il misterioso caso delle due sorelle e della torta rovesciata

La Donna del Perù con il grembiule blu

La donna del Perù. Nelle guide c’è sempre, non con questo nome. Perché non tutti vedono le cose alla stessa maniera.

di Tonino Risuleo

Nel pomeriggio l’ombra del campanile s’allunga fino a qui. Non ci tornavo da oltre vent’anni. Nulla apparentemente è cambiato: adesso come allora l’oste – che però è un altro – sta rovesciando le seggiole sui tavoli in attesa del tramonto. All’interno della cucina pentole e tegami si asciugano prima di tornare sui fuochi a far sfrigolare i soffritti per la cena. Stasera il menù sarà lo stesso del pranzo: la carta non nasconde insidie. La coratella coi carciofi è confermata così come le polpette al sugo, quello che cambia è il popolo dei mangiatori: studenti, impiegati e operai all’una e famigliole del quartiere a cena, in aggiunta agli stessi impiegati fuori sede, che non dispongono di una cucina nei loro alloggi.

Faccio un cenno all’uomo dei tavoli e transito tra due curiose fioriere troncoconiche. Passo sotto il tendone su cui c’è scritto “dal 1924…. Trattoria” a parte il punto di sospensione di troppo, una bella ammissione d’orgoglio. La sala è piccola, una quarantina di coperti di carta paglia. Tutto è lindo e ordinato con le classiche stampe di Romasparita alle pareti. Cerco la foto sbiadita del piccolo pugile dal ghigno bonario che ricordo d’aver guardato ogni volta cercando l’ispirazione e scegliere il piatto più giusto per il mio umore di giornata. La foto di Alvaro Zampagna: Il combattivo fondatore che con la sua altrettanto piccola consorte, gestiva con perizia i gruppi di mangiatori che all’ingresso si urtavano per guadagnarsi una seggiola. E l’accesso ai misteri sugosi della vera cucina romana.

L’anziano peso mosca saltellava da un tavolo all’altro con i passettini rapidi tipici dei fighter attendisti… Voleva resistere in piedi per tutto l’unico tragico round delle tredici.

Una vera battaglia e chi non trovava posto in sala poteva accomodarsi oltre la porticina affacciata su un cortiletto affogato fra i palazzotti dell’Ostiense che è quasi Garbatella. Il fantastico cortiletto, tutto storto e ingombro di cartoni dei pelati e casse d’acqua minerale con i tavoli incastonati qui e là: una gentile concessione dei gestori che, pur di non mandare via gli affamati, li aggiustava tra un vaso di gerani e la catasta di sedie senza più l’impagliatura.

Il mio tavolo preferito era quello sistemato in fondo, sopra tre scalini di scalcinati mattoni giallognoli. Da lì potevo controllare il cortile, l’uscita dei piatti dalla cucina e, d’infilata, quasi tutto il movimento in sala.

Al suono di un gong muto ogni giorno salivano sul ring i menu fissi della moglie del pugile (la regina del picchiapò): il giovedì gli gnocchi, il venerdì il baccalà alla romana e il sabato la mitica trippa.  Con tutti gli altri secondi all’angolo: la coda alla vaccinara, il saltimbocca alla romana, le cotiche e fagioli. E tutte le sapide leccornie del quinto quarto. L’atmosfera rievocava, e ci riesce ancora, le cronache romane degli anni ’50 con i pasti frugali che non rubassero troppo spazio agli avventori del pomeriggio dediti al bianco dei Castelli e al tresette.

Ma la vera e grande peculiarità dell’osteria si scopriva al momento del caffè. Forse ci si andava più che altro per questo: mangiare svelti e ordinare il caffè. E poi porsi in spasmodica attesa della folgorante e trionfale apparizione di una donna magica, sontuosa e giunonica, biondo platino e bocca di cerasa, stretta in un grembiule blu troppo stretto. Giungeva con vassoio e tazzine slanciando le gambe nude, danzando in una nuvola bruna di aromi afrodisiaci con sentori di cannella, polveri misteriose e fernet.

Il fatto è che il fortunato barista della bottega accanto aveva scelto per la sua fornitura una torrefazione dal brand evocativo: Caffè Perù. E per tutti lei era la Donna del Perù.

Valutazione? Un esperienza così vale un tesoro! Una volta si sarebbe detto “vale un Perù”.

La Donna del Perù, ovvero Trattoria Zampagna, Via Ostiense 179, Roma

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20.12.2018 # 5486
Lamotte Beuvron. Il misterioso caso delle due sorelle e della torta rovesciata

Il commissario, la postina fumatrice e il macellaio umorista

Natale. Il fornello della pipa mi bruciacchia i polpastrelli e la nuvola di fumo sotto la falda del cappello mi protegge in una tiepida tenda

di Tonino Risuleo

Non c’è niente di meglio in una mattina fredda che sedersi da soli a un tavolino fuori dal bar sulla piazza. La superficie tonda è increspata dalla patina di brina ghiacciata e il cameriere non accenna ad allontanarsi dal tepore della macchina del caffè per affacciarsi a chiedere che cosa voglio per scaldarmi.

Ma tanto non ho voglia di niente. Ho il fornello della pipa che mi bruciacchia i polpastrelli e la nuvola di fumo sotto la falda del cappello che mi protegge in una tiepida tenda.

E poi c’è la carica del mio cervello al lavoro.

Ho appena chiuso il caso del macellaio umorista… non è stato facile, soprattutto al momento di far scattare le manette. Quel diavolaccio aveva dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio di aver avuto ragione: disprezzare il suo taglio più gustoso non era stata una buona idea e, nonostante tutta la sua carica positiva, non aveva sopportato l’affronto e la sua mannaretta aveva fatto il resto.

Quell’idiota, neanche cliente abituale, era entrato nella sua bottega facendo il gradasso -ormai tutti si sentono esperti di cucina- chiamando con dei nomi a casaccio i tagli esposti nel banco frigo. Pretendeva di avere ragione. Ma sul diaframma scambiato per copertina di spalla non ce l’aveva fatta e gli era partito l’embolo. L’insopportabile saputone era finito sul ceppo ed era ancora in sé quando il professionista del mezzo colpo gli aveva fatto dondolare davanti agli occhi il suo stesso diaframma ben ripulito dalla pellicola di connettivo.

Fino a quel giorno il buon beccaio era sempre stato l’idolo delle signore e delle servette che passavano da lui per bistecche e consigli. La sua abilità con le lame era superata solo dalla fantasia nell’inventare storielle sempre nuove, leggere come la rete dei fegatelli e gustose come le sue polpette a sorpresa. La più gettonata in questo periodo era quella dei pastori che soffocano il loro canto nella sorpresa di non scorgere il bue e l’asino in fondo alla stalla del bambinello.

“C’ero passato io… un macello!”

Il cameriere temendo il congelamento del suo miglior cliente mi ha portato un grog perfetto, lui lo prepara come il bumboo dei pirati, con rum e noce moscata.

Il cielo scuro e la nebbia hanno suggerito l’accensione dei lampioni e ora i loro aloni competono con il disco sfocato del sole che è solo un vago barlume.

Dal vicolo all’angolo della piazza sento arrivare lo scooter tossicchiante della postina. È puntuale come l’orologio della torre e sa di trovarmi al tavolino del bar dove ogni mattina mi consegna la mia scarsa corrispondenza.

La vedo nel suo giaccone impermeabile bianco e giallo, gobba dietro al parabrezza, con la solita cicca storta all’angolo della bocca: la brace arde come la luce d’emergenza di un’ambulanza.

Come ogni giorno ottengo buste e cartoline in cambio del caffè lungo macchiato e un biscotto con il candito dello stesso rosso che c’è in cima alla sua sigaretta.

Lo prende rimanendo in piedi, non ha fretta ma è sua abitudine non fermarsi più di quanto serva prima di riprendere il suo giro.

Tiro fuori l’orologio dal taschino; s’è fatta l’ora giusta per dirigermi verso la mia trattoria preferita. Non ha un nome vero e proprio e ognuno può chiamarla come vuole.

Sulla vetrina appannata il patron ha appiccicato la solita scritta con i brillantini: anche quest’anno stanno arrivando le feste.



L’Osteria senza Nome Via Tal de’ Tali snc – Ovunque di Sopra (ZV)

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29.10.2018 # 5487
Lamotte Beuvron. Il misterioso caso delle due sorelle e della torta rovesciata

Il commissario, il beccamorto e il pecorino di fossa

Verbale N.52 a carico del decurione Giuseppe di Arimatea, nemico giurato delle fosse comuni. Le castagne, il rosso feroce e la pizza croccante

di Tonino Risuleo

C’è fossa e fossa
Mangiamo castagne bollite accompagnate da un rosso toscano tannico al punto giusto. Il mio amico anatomopatologo in pensione mi racconta di Giuseppe – uno dei settanta componenti della suprema istituzione giudaica del Sinedrio – che si trovava in Palestina al momento del triste episodio delle tre crocifissioni.

Essedo egli un uomo tra i più affermati e potenti della congrega si recò personalmente dal governatore romano Ponzio Pilato a chiedere la restituzione del corpo del Nazareno. Il diritto romano prevedeva che i sovversivi, così come i ladri, dovessero essere crocifissi e poi gettati nelle fosse comuni, senza esequie e senza nome. Il corpo gli fu eccezionalmente concesso e lui lo fece sistemare nella sua tomba personale, una grotta nelle vicinanze del Calvario davanti alla quale fu poi fatta rotolare l’enorme pietra circolare tante volte descritta nelle scritture. Pare che le motivazioni del suo gesto caritatevole fossero legate al fatto che era diventato un seguace di Gesù pur non dichiarandolo pubblicamente per timore di pericolose ritorsioni a opera dei rappresentanti del Sinedrio. Ritorsioni che non tardarono ad arrivare: di lì a poco fu arrestato e rinchiuso in un fosso perché morisse di fame. Per sua fortuna lo stesso luogo era stato scelto da alcuni pecorai della zona per custodirci le loro preziose forme di pecorino e sottrarle alle razzie delle soldataglie romane. Così Giuseppe, il decurione sepolto, si diede ad azzannare formaggi affinando l’attitudine a determinarne il giusto punto di stagionatura.

Mi azzardo a trarre conclusioni raffazzonate… si può dire che il giusto di Arimatea si segnalò come necroforo dell’anno zero e, allo stesso tempo, come degustatore di pecorini di fossa.
A proposito di necrofori azzannatori, un vermetto spuntato dalla castagna che tengo tra le dita mi fa tornare in mente che il termine beccamorto, utilizzato bonariamente per gli addetti ai servizi di pompe funebri, deriva dall’antica tecnica utilizzata per sentenziare con certezza il trapasso del trapassato dandogli un deciso morso all’alluce, un punto molto sensibile. Quella metodologia si era sviluppata in periodi di guerre e pestilenze quando l’altissimo tasso di mortalità e la scarsità di medici legali ne rendeva necessario l’impiego.

Da beccamorto a becchino. E il beccaio? Beh, quella è un’altra storia, anche se l’ambito è lo stesso, sempre di corpi si tratta, però c’è da distinguere: il termine beccaio nasce con l’arte del macellare e vendere carne di becco cioè caprina, la più disponibile e mangiata nel medio evo.

L’allegro cicaleccio della morgue del bon ton
L’aperitivo autunnale mi ha scavato una fossa nello stomaco. Devo correre ai ripari ma alle sette di sera non è facile. In più adesso piove un’antipatica acquerugiola sabbiosa che fa scricchiolare l’asfalto al passaggio delle auto. Per merito dei racconti di feretri e fosse riesumo il ricordo del posto giusto dove andare a placare il mio rantolo di fame.

Vado all’Obitorio! Pasolini l’ha ribattezzato così ma i per i trasteverini è sempre stato “Ai marmi” per via della grande sala illuminata a giorno fitta di tavoli accostati l’uno all’altro con gli immortali ripiani di marmo degni di una morgue da libro giallo.

Varco la porta a vetri di alluminio bronzato in stile ristrutturazione economica e riassaporo quell’atmosfera da orologio fermo che tanto gradisco. Qui ci si può entrare anche solo per un filetto di baccalà scrocchiarello e un bicchiere di bianco dei castelli.

Ci sta sempre il banco frigo dei contorni e antipasti del giorno sormontato da pannelli luminosi che riesumano antiche parole come fagioli all’uccelletto e supplì al telefono.

A quest’ora la truppa dei camerieri-cassamortari in camicia bianca e cravatta nera e i pizzaioli simili a incerti pulcinella in trasferta, ozia inoperosa davanti alla fiamma del grande forno a legna.

Siedo nei pressi della zona impastamento a origliare le loro chiacchiere di aquile e di lupi.

Poi i pizzaioli, infischiandosene del neon sopra le loro teste che promette “pizza napoletana”, stiracchiano col matterello i dischi lievitati fino a renderli lenzuolini immacolati.

E quando li vedo allineati così, sulla lapide fredda del piano marmoreo, trovo confermato l’epiteto pasoliniano.

Sgranocchio un fiore di zucca ripieno di mozzarella e alici mentre l’animazione attorno a me cresce; si avvicinano le otto e gli avventori si danno da fare per occupare i marmi nudi; le olive verdi compaiono assieme alle fogliette di bianco e comincia il balletto.

Devo spendere due parole sulla clientela del posto che è tra le più eterogenee del pianeta. Siamo a Trastevere e i giapponesi e i tedeschi sono di casa così come gli ex-americani residenti fin dagli anni ’70 ma la vitalità degli indigeni d’oltrefiume è ancora lungi dal soccombere. Ci sta la matrona con la capigliatura a panettone e l’abito a fiori in compagnia di un bretellato trippone e c’è la coppietta che si sbaciucchia senza badare ai loro quattro pargoletti che galoppano per la sala. In un gruppetto di studenti, il più abile, riesce a sezionare in quattro pezzi di pari peso una crocchetta di patate. Qui se magna pe’ magnà! Sui marmi si moltiplicano i peroncini e i tovaglioli di carta unti e appallottolati.

Sotto i soffitti alti tutti gorgheggiano felici: sono gli eterni scampati a tutto, i transeunti voraci di piselli e guanciale. Voglio mangiare tutto quello che mangiano loro e bere birrette e litrozzi!

Un filetto di baccalà, un supplì, i fagioli con cipolle, le patate cacio e pepe, due crocchette, le olive ascolane, una scamorza al forno, i fagioli con l’osso di prosciutto, i funghi trifolati, tre bruschette assortite, caciotta e salame. Di pizze “napoletane” sottili e croccanti ce ne vogliono almeno tre: la marinara, la capricciosa e una salsiccia e funghi. Più un calzone.

Il rischio dell’indigestione non mi tange. Se in caso, prendo il tram all’angolo e vado fino a San Lorenzo agli alberi pizzuti.

Valutazione concordata con un vespillone di passaggio: tra 33 e 47.




Pizzeria Panattoni “Ai Marmi” Viale Trastevere 53, Roma



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